E’ una giornata di marzo. La primavera è alle porte e la natura si risveglia, come ogni anno.
Ma quest’anno non è tutto come sempre. Un giorno di gennaio è arrivata la notizia che un nuovo virus si sta velocemente diffondendo in Cina. Sta contagiando migliaia di persone, provocando seri problemi respiratori che possono anche condurre alla morte. I mass media ci mostrano immagini apocalittiche di città deserte, ci parlano di mascherine, biocontenimento, ospedali da campo, terapie intensive. Ci forniscono quotidianamente il numero dei contagiati, dei morti, dei guariti, in quella che si teme possa diventare una pandemia.
Ma la Cina è lontana, molto lontana. Ascoltiamo con compassione le terribili notizie che ci giungono, ma quello è ancora un loro problema.
Assistiamo a qualche increscioso episodio di discriminazione nei confronti di chi ha gli occhi a mandorla, ma siamo ancora piuttosto tranquilli. Poi, il 21 febbraio, arriva la notizia che il nuovo coronavirus, battezzato Covid-19, ha contagiato il primo italiano. La notizia ha l’effetto di una bomba. Improvvisamente ci troviamo catapultati in un incubo.
Giorno dopo giorno, anche in Italia, cominciano ad aumentare i malati. L’epidemia si diffonde sempre più velocemente. Ascoltiamo nuovi numeri: contagiati, morti; ma questi sono i nostri numeri, questa è la nostra battaglia.
Le scuole vengono chiuse e ci ritroviamo soli davanti allo schermo di un computer. La tecnologia che tanto apprezziamo diventa una gabbia. Dobbiamo dire addio ai rituali che amiamo: il caffè al bar e le quattro chiacchiere prima di entrare a scuola, il pranzo insieme del venerdì, le risate all’intervallo. Ci mancano persino il traffico e gli autobus sovraffollati che abbiamo sempre detestato.
Ora c’è silenzio, anche troppo.
E’ come se qualcosa dentro di noi si fosse spezzato, come se qualcosa stesse cancellando tutti i nostri progetti, i nostri sogni. E nasce un sentimento quasi di rabbia. E’ l’ultimo anno di scuola: ci sarebbe stato tanto da studiare, ma anche tanto da condividere: i cento giorni alla maturità, la gita, gli ultimi mesi di impegno, ansia, ma anche condivisione e unione.
I giorni passano e la situazione precipita. Assistiamo impotenti ad altre conte dei contagiati, dei morti.
Gli ospedali, ci dicono, sono allo stremo. Non c’è più tempo per la rabbia. Ci travolge un sentimento nuovo: è la paura, paura per noi stessi, per le nostre famiglie, ma soprattutto per le persone più fragili, per gli anziani e gli ammalati, che sembrano sempre più destinati a venire messi da parte, in una specie di orribile e inumana lotta per accaparrarsi l’ultimo posto in ospedale.
Il governo prende provvedimenti sempre più drastici. Non basta più lavarsi spesso le mani ed evitare luoghi affollati.
Vengono chiusi bar, ristoranti, negozi. L’imperativo è stare a casa, uscire solo se indispensabile, mantenere le distanze. I paesi si svuotano, le città sembrano deserte. Ci avvolge un senso di solitudine e di tristezza. Ci manca il contatto con gli altri, una stretta di mano, un abbraccio.
Ma da questi invisibili muri che ci dividono nasce anche un nuovo senso di fratellanza. Gli italiani riscoprono di essere un popolo capace di stringersi ed unirsi contro un comune nemico.
Dalle finestre e dai balconi di ogni casa parte una musica, un inno alla vita, che ci inonda con un senso di amore e di speranza. Ce la faremo e, forse, saremo persone migliori.
Francesca Carletti 5AFM3
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